Momenti di riflessione al cinema Qoelet

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GIUSTIZIA E CARCERE
MOMENTI DI RIFLESSIONE AL QOELET DI REDONA

Venerdì 20 e sabato 21 marzo il Cineteatro Qoelet di Redona ha ospitato una interessante iniziativa dal titolo “La giustizia ci riguarda” sulle tematiche della giustizia e del carcere, articolata in tre eventi: la proiezione del documentario “Levarsi la cispa dagli occhi” (venerdì sera), il Convegno “Tra carcere e comunità: percorsi di riconciliazione” (sabato mattina) e l’opera teatrale “Anime cosmetiche” della Compagnia Opera Liquida (sabato sera).

Il documentario, realizzato nel carcere di massima sicurezza di Milano-Opera, ha per protagonisti i 60 detenuti (su una popolazione di 1.400) che hanno aderito al Progetto “Libera-mente”, che propone sia la lettura di libri (romanzi, saggi, poesie) e il loro commento sia la produzione di testi. Il Progetto, che prevede anche l’incontro dei partecipanti con scrittori e artisti, è finalizzato ad attivare un processo di ri-alfabetizzazione emotiva e a gettare un ponte fra “dentro” e “fuori”. Al termine della proiezione sono saliti sul palco, oltre ai due registi Carlo Concina e Cristina Maurelli e ad alcuni insegnanti impegnati nel Progetto, una decina di detenuti-attori, che hanno recitato poesie scritte da loro e hanno dialogato vivacemente con il pubblico fino a mezzanotte. In particolare, i detenuti hanno chiesto di non essere abbandonati dalla società civile, ma di essere accompagnati e supportati lungo il loro percorso di espiazione. I numerosi spettatori, commossi dalla sincerità e dalla sofferenza che traspariva dalle testimonianze dei detenuti (molti dei quali stanno scontando pesanti condanne), non hanno lesinato gli applausi.

Il Convegno svoltosi sabato mattina, patrocinato dalla Caritas Diocesana Bergamasca, dall’Associazione Carcere e Territorio Bergamo e dalla Società San Vincenzo de Paoli, ha avuto come relatori il prof. Luciano Eusebi, docente di Diritto penale all’Università Cattolica di Brescia e don Virgilio Balducchi dell’Ispettorato Nazionale Cappellani delle Carceri; coordinatore è stato il prof. Ivo Lizzola, docente di Pedagogia sociale all’Università di Bergamo, che ha introdotto il Convegno dicendo che:

  • le vittime (e i loro parenti) in un primo momento chiedono vendetta, poi chiedono la verità;
  • i detenuti non chiedono di non scontare la loro pena, ma si domandano perché ciò debba avvenire attraverso la carcerazione, che rende peggiori;
  • il confronto con i reclusi innesca un processo di auto-analisi: una studentessa universittaria in visita ai detenuti del carcere di Verdiana ha detto “Grazie perché mi avete fatto entrare nelle mie ombre”;
  • Emilio, un detenuto anziano a fine pena, in affidamento e che ha un lavoro ha deciso di dedicare metà del suo tempo al volontariato perché sostiene di aver dei grossi debiti che deve saldare e vive li vuole pagare.

Nel suo intervento sulla Giustizia riparativa il prof. Eusebi ha sottolineato come la concezione diffusa della Giustizia sia rappresentata da una bilancia dove su un piatto c’è la colpa e sull’altro la pena espressa in termini di tempo: quanto più grave è il crimine commesso, tanto più lunga deve essere l’espiazione. Secondo questa concezione, il modello di prevenzione è costituito dalla intimidazione. Ma un negativo (la carcerazione) non cancella un negativo (il reato) ma genera due negatività. Bisogna ripensare il nostro concetto di giustizia basata sulla corrispondenza fra la colpa e la pena, dove la pena è concepita come sofferenza e non come progetto. Se, nel momento stesso della condanna, si definisse già un percorso di recupero del condannato, lì ricomincerebbe il dialogo sul progetto di risposta al reato. In questo modo si reagirebbe al male non replicandolo ma contrapponendogli un progetto positivo, cioè il bene. Dice Eusebi “Il compito della Giustizia è tornare a rendere giusti (cioè giustificare) i rapporti che non lo sono stati”. In questa ottica, la prevenzione consiste nel tenere elevati i livelli di libero consenso alle norme. Se la pena è violenza vuol dire che la società veicola il messaggio che la violenza è ammessa. Tutte le volte che noi reintegriamo, noi rafforziamo il consenso alle norme sociali. L’idea della mediazione penale è che vittima e colpevole si incontrino e possano dirsi la verità, mentre la commissione di mediazione riferirà sulla qualità della relazione fra i due soggetti. Il reato è sempre una rottura della relazione: la vittima non è più considerata una persona ma un oggetto; nella mediazione ciascuno ridiventa per l’altro una persona. Il colpevole deve elaborare una proposta riparativa. I casi di recidiva dopo una mediazione sono molto bassi.

Nel suo intervento Don Virgilio Balducchi ha richiamato l’attenzione sul fatto che la maggior parte dei motivi che spingono le persone a delinquere è riconducibile alla vita di tutti noi: un ragazzo ventenne trovato a spacciare pillole davanti a una discoteca lamentava il fatto di essere stato condannnato mentre i suoi “clienti” non erano stati perseguiti; gli omicidi in ambito familiare avvengono fra persone che dicono di volersi bene; ma allora che cosa vuol dire “volersi bene” a livello sociale? Allora il male diventa un problema di tutti, il male che esiste nella società diventa una responsabilità comune. Papa Francesco in una lettera ai giuristi dell’America Latina ha sottolineato che nella parabola del buon samaritano ci si preoccupa della vittima, non di chi ha commesso il reato. Probabilmente non ascoltiamo abbastanza le vittime e non le mettiamo in relazione con i colpevoli.

Ha poi preso la parola il Direttore del Carcere di Bergamo, dr. Antonino Porcino, che ha ricordato la collaborazione ventennale con il prof. Lizzola su progetti educativi. Il carcere di Bergamo come laboratorio anche durante gli anni del terrorismo con la formazione di due gruppi omogenei di uomini e donne che avevano abiurato i princìpi del terrorismo. Il dr. Porcino ha affermato che è importante che dall’esterno provengano suggerimenti e stimoli su come affrontare i problemi del carcere; da parte loro i media dovrebbero farsi promotori di una riflessione seria sulla giustizia e non limitarsi a spettacolarizzare le vicende criminali. Il lavoro quotidiano del dr. Porcino consiste nel dare dignità ai detenuti, che vuol dire dare dignità agli operatori e agli ambienti e per dare dignità è necessario vivere responsabilmente il proprio ruolo; i detenuti, ad esempio, devono rispettarsi reciprocamente e magari sviluppare rapporti di solidarietà; ma anche fra detenuto e operatore deve esserci rispetto reciproco. Oggi sono maturate le condizioni per il progetto “celle aperte”, cioè l’apertura di spazi fruibili da riempire di significato e contenuti. Il reinserimento nella società non è possibile se all’interno del carcere il detenuto non è aiutato a diventare protagonista del suo futuro.

L’ultimo intervento è stato quello del sig. Gino Gelmi dell’Associazione Carcere e Territorio Bergamo che ha richiamato l’attenzione sul fatto che l’80% dei detenuti del carcere di Bergamo ha commesso reati riconducibili al denaro e allora forse la prevenzione dovrebbe consistere in una società capace di redistribuire la ricchezza e di erogare un reddito di sopravvivenza. La metà dei detenuti sono stranieri in quanto non possono usufruire degli arresti domiciliari o di pene alternative perché non hanno casa né lavoro. Il primo compito di una comunità è di chiedersi in quale società viviamo, perché il carcere è lo specchio della società esterna. Nel momento in cui accetta la sfida di attivare una modalità diversa di estinzione del reato, la società deve assicurare alle persone alla fine della pena casa e lavoro per prevenire la ricaduta in comportamenti criminali.

La rappresentazione messa in scena sabato sera è stata realizzata da Opera Liquida, compagnia teatrale formata da reclusi della sezione “comuni” del carcere di Milano-Opera, sotto la direzione di Ivana Trettel e con il supporto degli insegnanti e degli studenti della Nuova Accademia di Belle Arti di Milano che hanno progettato e realizzato scene e costumi. I testi vengono elaborati direttamente dai detenuti: nel caso specifico, si immagina che in un futuro indefinito, per far ripartire il volano dell’economia, in un centro commerciale venga imposto un mese di “solenne dedizione alle vendite”; il testo ironizza sul consumismo dilagante e sull’uso smodato di anglicismi, ma parla anche di paura, di colpa, di amore.

Simonetta Paris

 

foto Da sinistra: il prof. Luciano Eusebi, il prof. Ivo Lizzola e il dr. Antonino Porcino.

 

Dal bollettino parrocchiale di aprile 2015