BORGO INTERVISTE – 6^ PUNTATA – GIUSEPPE REMUZZI

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remuzzi3Il Professor Giuseppe Remuzzi, 65 anni, è Direttore del Dipartimento di Medicina e dell’Unità di Nefrologia dell’Ospedale di Bergamo e il Coordinatore delle Ricerche presso la sede bergamasca dell’Istituto ”Mario Negri”. E’ riconosciuto come uno dei più importanti nefrologi a livello mondiale, tanto che nel 2013 è stato nominato presidente della ISN (Società Internazionale di Nefrologia) per il biennio 2013-2015. Negli anni ha ricevuto numerosi riconoscimenti come il Premio Jean Hamburger, il più importante della nefrologia mondiale, nel 2005 e il John P. Peters Award, premio dedicato a coloro che hanno portato contributi fondamentali nella ricerca nefrologica, nel 2007. Inoltre è autore di più di 1000 pubblicazioni su riviste internazionali e di 13 libri di argomento nefrologico. All’inizio del 2015 è stato pubblicato “La Scelta”, un libro che approfondisce temi come l’accanimento terapeutico, la possibilità per il malato di scegliere se continuare a curarsi, ma anche  il problema del divario tra organi donati e persone in attesa di trapianto e come spiegare ad un bambino malato terminale la sua condizione.
Nel Borgo è nato e cresciuto, e anche se oggi non vi abita più, mantiene con esso un rapporto stretto.

Professor Remuzzi, che ricordi ha della sua giovinezza nel Borgo?

Sono nato in via Suardi e da bambino ricordo le lunghe passeggiate che facevo in compagnia di mio nonno in Santa Caterina. Spesso andavamo per l’aperitivo al Giardinetto, un locale che oggi non c’è più, e una cosa che mi colpiva moltissimo è che nel tragitto mio nonno salutava praticamente chiunque incontrassimo, come si fa nei paesi dove ci si conosce tutti.
Nel Borgo ho frequentato l’oratorio, ho giocato a pallavolo e ho coltivato la passione per il teatro trasmessami da mio padre: lui recitava al cineteatro e lì io ho realizzato i miei primi spettacoli come regista di compagnia teatrale. Insomma, il Borgo è stato un ottimo ambiente in cui crescere.

Crede che lo spirito del Borgo si conservi ancora oggi o trova che le cose stiano cambiando rispetto ad una volta?

I cambiamenti sono inevitabili ma credo che la vocazione del Borgo resti ben definita, per esempio la presenza di botteghe tradizionali garantisce un certo spirito a Santa Caterina. L’importante è che questa vocazione venga rispettata, non credo che il Borgo debba diventare una sorta di parco giochi per chi viene da fuori. Tuttavia non disprezzo una certa vivacità che si è venuta a creare negli ultimi tempi, fermo restando che le esigenze di chi si reca nel Borgo per svago devono venire incontro al Borgo stesso.
Tra l’altro penso che per la sua posizione Santa Caterina potrebbe essere un interessantissimo polo di cultura, mi riferisco in particolare alla vicinanza con la da poco rinnovata Accademia Carrara ma anche con Città Alta, due luoghi coi quali il Borgo dovrebbe trovare una continuità non solo spaziale.

Professore, come si è avvicinato alla professione medica?

Ho frequentato il liceo classico al Collegio Sant’Alessandro, dopodichè mi sono iscritto a Medicina all’università di Pavia laureandomi nel 1974 e infine mi sono specializzato a Milano nel 1977. L’idea iniziale era quella di dedicarmi alla psicanalisi, che però mi ha deluso e quindi sono passato alla scienza vera specializzandomi in ematologia. Un anno dopo la laurea mi sono sposato e avendo bisogno di lavorare ho colto un’opportunità che mi si era aperta al reparto di nefrologia dell’ospedale di Bergamo. Qui ho cominciato con il dottor Mecca, che considero il mio maestro, conducendo studi che sono stati pubblicati sul Lancet e sul British Medical Journal, i due giornali di medicina più importanti dell’Europa, devo dire che siamo stati fortunati.

Lei oggi è nel gotha della medicina, ma a differenza di molti suoi colleghi non ha avuto bisogno di andare all’estero per arrivare dove è attualmente.

Credo che gran parte della mia carriera sia dovuta proprio alla scelta di rimanere in Italia, nonostante nel nostro paese la ricerca sia penalizzata. Dopo la laurea avrei potuto andare negli Stati Uniti, o in Inghilterra, pubblicare tanti lavori e guadagnare di più, abitare in una grande casa in un bel quartiere di Washington o Londra. Ma per il mio paese non sarebbe cambiato niente e sono convinto che all’estero non avrei potuto fare quello che ho fatto a Bergamo.

Professore, a lei si deve una cura per le insufficienze renali che evita a molti pazienti di sottoporsi a dialisi. Come è arrivato a questa cura oggi adottata in tutto il mondo?

Nel 1995 ho conosciuto una ragazza che era arrivata a Bergamo dopo aver  sentito molti nefrologi, a Milano ma anche negli Stati Uniti  alla ricerca di una cura della sua malattia. I suoi reni erano molto sofferenti ed era destinata, già a 20 anni, a sottoporsi a dialisi. Inoltre i farmaci che avrebbero dovuto esserle somministrati le avrebbero fatto perdere i capelli, e questa cosa faceva soffrire ulteriormente la ragazza. Allora decisi di fare il possibile per alleviarle questa sofferenza: in sostanza, creammo un mix tra farmaci già utilizzati per terapie simili con altri fino a quel momento testati solo su animali. La cosa funzionò ed oggi quella ragazza non è in dialisi ed i suoi reni sono in buone condizioni. Questa tecnica è importante anche per i paesi in via di sviluppo dove la dialisi è un “lusso” per pochissimi e così facendo si possono salvare molte vite.

Lo scorso anno ha trovato un testimonial particolare per la ricerca contro l’insufficienza renale.

E’ vero, nel 2014 ho incontrato a Stoccolma Daniel Westling, principe di Svezia. Nel 2009 gli è stato trapiantato un rene donato dal padre, per un’insufficienza renale di cui soffriva fin da bambino. Essendo stato coinvolto in prima persona, il suo interesse per la lotta ai disturbi renali è cresciuto fino a proporsi per la collaborazione con l’ISN di cui sono presidente.  La sua presenza sarà importante sia a livello di visibilità che di raccolta fondi.

Nel 1985 lei, insieme al Professor Garattini, ha avuto l’intuizione di istituire il Centro di Ricerche Cliniche presso la sede di Bergamo dell’Istituto Mario Negri. Per l’epoca fu una rivoluzione, vero?

Fino ad allora una struttura specificamente ed esclusivamente dedicata alla realizzazione di progetti di ricerca che vedesse protagonisti in prima persona gli ammalati era una novità assoluta in Italia, e per la verità anche in Europa: l’ispirazione ci venne osservando il modello degli Stati Uniti dove ogni università aveva il proprio centro di ricerca. E una novità ancora maggiore era rappresentata dal fatto che il centro si sarebbe dedicato principalmente allo studio delle malattie rare, un campo all’epoca praticamente ignorato. Oggi, dopo circa 30 anni, abbiamo raccolto la documentazione di circa 13mila casi di malattie rare e circa 1000 malattie rare diverse.

Professore, tra tanto lavoro riesce a ritagliarsi del tempo per riposarsi?

Di tempo ne rimane poco, ma quando posso, per staccare completamente uso la montagna; è un ambiente che mi rilassa e mi permette di pensare. D’inverno ci vado per sciare, nel resto dell’anno pratico la pesca oppure osservo amici che cacciano. Una delle mie mete preferite è il rifugio Mirtillo a Carona, in alta Val Brembana.
Un altro momento che mi è molto utile per pensare è quando sono alla guida: parto da casa mia, a Fontana, percorro i Torni e passo spesso e volentieri proprio da Borgo Santa Caterina per recarmi a Villa Camozzi, la sede dell’Istituto Mario Negri. Trovo che sia il tragitto adatto per riflettere.

Professor Remuzzi, è stato un piacere. La ringraziamo per il tempo che ci ha concesso e per tutto quello che fa per le persone.

Grazie a voi e un saluto ai lettori.