Correva l’anno 1605 (e seguenti)
Mentre il nostro Santuario acquisiva sempre maggiore importanza nel territorio – è probabilmente del 1606 la decisione dei cittadini di Pedrengo di impegnarsi a una visita annuale alla nostra Madonna Addolorata, in sostituzione a un imprudente voto di alcuni anni prima alla Madonna di Loreto, nelle Marche -, la Serenissima Repubblica di Venezia, sotto il cui governo si trovava la nostra città, era impegnata in una contesa con la Chiesa di Roma, e in special modo con il Papa Paolo V, al secolo Camillo Borghese, salito nel 1605 al soglio pontificio, che avrebbe retto fino al 1621. Questo Pontefice, grande esperto di diritto, energico e risoluto, sotto certi aspetti molto aperto (cercò di limitare il lusso eccessivo degli ecclesiastici e di migliorare le condizioni di vita dei carcerati nei suoi territori, condannò risolutamente le angherie perpetrate da alcuni cristiani ai danni degli ebrei, concesse specialmente in terra di missione di celebrare la Messa negli idiomi locali e non più in latino…), fu altrettanto intransigente nella volontà di rafforzare l’autorità papale. Per esempio, fu molto deciso nel pretendere che tutti i Vescovi, e quindi anche il Patriarca di Venezia, si presentassero a Roma per sostenere una sorta di esame di idoneità. Come è noto, Venezia era più che determinata a difendere i diritti della propria sovranità temporale e la propria autonomia, che intendeva estendere anche all’àmbito ecclesiastico. In seguito ad alcuni processi intentati dalla Repubblica a due uomini di Chiesa, per reati comuni e assai gravi, il Papa chiese che i due fossero inviati a Roma per essere sottoposti al tribunale ecclesiastico; pretendeva poi l’abrogazione di due precedenti leggi con cui il Senato veneto aveva vietato l’erezione di luoghi di culto senza l’autorizzazione del potere civile, oltre ad altre disposizioni concernenti questioni di compravendita di beni ecclesiastici. Il 10 dicembre 1605, dunque, il Papa inviava a Venezia due documenti ufficiali, detti brevi, minaccianti la scomunica. Venezia, consultati i suoi teologi, tra cui il celebre Paolo Sarpi, rispose proclamando il proprio potere sovrano, derivante direttamente da Dio, in materia di leggi civili. A questo punto il Papa rispondeva scomunicando la Repubblica (aprile 1606): incominciava la contesa detta dell’interdetto. La Repubblica di Venezia vietò espressamente che le cedole, cioè i documenti formali che sancivano questa scomunica, fossero pubblicate, anzi, diede ordine a tutti gli ecclesiastici, a cominciare dai Vescovi dello Stato, fino ai curati, cappellani, superiori di tutti i conventi, di distruggere i documenti pontifici che fossero eventualmente già stati esposti nelle chiese. Questa crisi provocò grande agitazione fra gli ordini religiosi, incerti se obbedire alla Repubblica o al Pontefice (i Teatini e i Cappuccini scelsero di abbandonare i territori della Repubblica in ossequio alle direttive del Papa, mentre i Gesuiti e i Riformati si mostrarono, anche se con indecisioni, più concilianti con il potere politico), ma con ogni probabilità il popolo neppure si accorse di questa controversia, e le celebrazioni continuarono regolarmente. Anche il nostro borgo non pare essere stato toccato da questa situazione di conflitto, che, del resto, si sarebbe conclusa nell’aprile del 1607, grazie alla mediazione di tutti i più importanti Stati del tempo. È probabile, però, che nel Pontefice si conservasse nei confronti del Clero di Bergamo una certa diffidenza, che si sarebbe – forse – manifestata qualche anno più tardi, nel 1615, riguardando, tra gli altri, anche il nostro Santuario.
a cura della professoressa Loretta Maffioletti
foto: Papa Paolo V
dal notiziario parrocchiale di dicembre 2016
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