Tutto esaurito ai Celestini – Un inedito Stabat Mater in stile Jazz

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Tutto esaurito lo scorso 16 aprile per il doppio concerto ideato da Alessandro Bottelli. Una reinvenzione originale ed esclusivamente strumentale del capolavoro vocale di Giovanni Battista Pergolesi, creata appositamente per valorizzare l’antica chiesa di San Nicolò ai Celestini e raccogliere fondi in aiuto ai lavori di consolidamento del chiostro. Applauditissimi Giovanni Falzone, Andrea Andreoli e Nadio Marenco, un trio di affiatati e autentici fuoriclasse. L’evento è stato dedicato alla memoria di Giuseppina e Gino Rota, coppia di coniugi molto conosciuta nel Borgo.

Renato Magni

Due concerti, entrambi applauditissimi, il secondo, serale, organizzato qualche giorno prima a seguito del pienone registrato da quello pomeridiano. È questo il commento forse sufficiente ed eloquente alla performance che un trio decisamente non ortodosso ha offerto al pubblico bergamasco lo scorso 16 aprile nella suggestiva cornice della chiesa di San Nicolò ai Celestini, nel cuore del borgo storico cittadino. Un appuntamento che ha permesso a molti di scoprire questa piccola chiesa satura di storia e arte. E che ha altresì permesso a molti di scoprire una musica affatto scontata e dei musicisti che portano in dote ad ogni ascoltatore aperto e curioso qualità davvero preziose.

Per sostenere il progetto di finanziamento dei lavori necessari per contrastare l’usura del tempo che aggredisce le fragili e preziose architetture della struttura religiosa, Alessandro Bottelli – ideatore e organizzatore del doppio appuntamento inserito nella «Settimana della Cultura» voluta dalla Diocesi e dedicato alla memoria dei coniugi Giuseppina e Gino Rota –, ha varato un progetto musicale lontano dalle consuetudini. Quasi scontato in queste occasioni affidarsi al repertorio della musica «classica», tanto più se rappresentato da composizioni ispirate ai misteri della fede o plasmate sulle forme, i tempi e i contenuti delle liturgie.

Per l’occasione ci si è rivolti allo Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi che, insieme con La serva padrona, è opera tra le più celebri di uno dei compositori più talentuosi della storia della musica. Un autore dal genio facile e felice che ha messo agli atti le opere realizzate in un arco di vita brevissimo, 26 anni, dal 1710 al 1736, e un ciclo di produzione artistica di soli 5 anni. La scelta di campo non scontata, orientata a proporre un viaggio sonoro del tutto alieno alle garanzie offerte dai repertori dati e noti, è stata però quella di affidare il capolavoro settecentesco alla manipolazione creativa non di un compositore contemporaneo, inscritto apparentemente nella medesima tradizione del primato dell’opera fatta, quanto ad un musicista che nella contemporaneità mette a frutto le competenze e i saperi estrosi della scrittura e dello strumentista.

Around Stabat Mater è il titolo scelto per descrivere questa reinvenzione del capolavoro scritto dal compositore di Jesi nel 1736 da parte del trombettista Giovanni Falzone. Uno dei più prolifici e inventivi uomini di un jazz italiano emancipato dal rispetto ossequioso del linguaggio idiomatico a stelle e strisce. A Falzone per altro non difetta certo la piena padronanza e conoscenza di quel linguaggio. Ma non è il tratto idiomatico e il rispetto stilistico a qualificare la sua natura di jazzista. Come ha avuto modo di sottolineare nel corso della giornata bergamasca, Falzone riconosce al jazz soprattutto una lezione di libertà nel trattare qualsiasi materiale musicale. I suoi progetti preceduti dal prefisso Around hanno già toccato le musiche di Jimi Hendrix, Ornette Coleman, Giuseppe Verdi e, a ben vedere, anche dei Led Zeppelin. Dunque traiettorie che «attorno» a repertori esistenti si consentono ampie libertà di movimento e, va detto, sfrontate e felici riappropriazioni.

Per i cosiddetti «cultori della materia» ogni auspicio di ritrovare qui i paradigmi e le estetiche originarie deve essere ovviamente abbandonato. Come pure l’ambizione del raffronto filologico. Il repertorio di partenza è pretesto che ambisce ad uno spazio creativo nuovo e ben distinto dall’originale. E così è stato con Pergolesi, a partire dall’organico, un trio con il trombone del bergamasco Andrea Andreoli, stupendo strumentista e improvvisatore orientato alla costruzione consapevole e sapida del fraseggio, e del fisarmonicista Nadio Marenco, altrettanto valido musicista. La composizione di Pergolesi per solisti vocali e orchestra d’archi è stata affidata a due fiati, tromba e trombone, e ad una fisarmonica.

Una sintesi estrema (ricorda il Wagner riletto da Uri Caine) e azzeccatissima. Falzone ha selezionato i primi cinque numeri della composizione di Pergolesi facendo seguire ad una sezione direttamente basata sull’originale, una sorta di ben più libero commento orientato al primato dell’improvvisazione. Le stesse sezioni costruite a partire dalla scrittura di Pegolesi hanno messo in gioco una riscrittura che ha trasfigurato i pur riconoscibilissimi originali nei nuovi equilibri tra le parti e nel ruolo «sinfonico» assunto dalla fisarmonica. Consentendo così la piena deriva libera e creativa delle sezioni successive, pure mantenendo una solida continuità musicale tra le giustapposte sezioni, come nel passaggio dal suggestivo attacco dello Stabat Mater dolorosa alle sinuose movenze del tango di Stabat, con preziosi obbligati dei fiati sul solo di fisarmonica che hanno introdotto ai dialoghi in punta di fioretto del finale.

Il Cuius animam gementem ha visto l’ingresso dell’elettronica e del trattamento tecnologico della voce portando dall’assertivo frammento melodico esposto da tromba e trombone ad un percussivo collettivo memore della versione del jungle style di Mingus. Tappa dopo tappa l’uditorio, certo relativamente avvezzo alle invenzioni senza rete di protezione di questo approccio al «classico», ha sempre più apprezzato una miriade di invenzioni timbriche, di adattamenti armonici, di valorizzazioni estreme del tratto melodico.

E il trio in scena ha saputo catalizzare l’attenzione del pubblico sul decorso imprevedibile di una musica che si inventa nel fare. Se il Quae moerebat et dolebat di Pergolesi dialoga con le estetiche dell’opera buffa, il successivo Cor meum di Falzone traduce quegli stessi materiali sonori con un omaggio che evoca l’hard bop di Benny Golson. E le due cose stanno insieme magnificamente. Merito di una conoscenza e una passione vera e autentica per diverse storie e tradizioni musicali che Falzone riesce ad adattare al suo mondo sonoro.